A chiudere gli occhi non ci vuol nulla
Leggere un libro tratto da una storia vera è sempre differente rispetto alla visione di un film tratto da una storia vera. Nel libro non ci sono attori, ti crei la scena nella tua testa dando un volto e una forma a tutto ciò che stai leggendo. Il film è tutt'altra cosa: molte volte è già un riassunto del libro, gli attori interpretano delle parti e non si può immaginare oltre quello che vedi.
Sto leggendo "La città della gioia" di Dominique Lapierre. Ed ecco trovarsi di fronte il capitolo che segue.
"[...] Paul Lambert seppe la notizia quella mattina mentre tornava a casa.
Sto leggendo "La città della gioia" di Dominique Lapierre. Ed ecco trovarsi di fronte il capitolo che segue.
"[...] Paul Lambert seppe la notizia quella mattina mentre tornava a casa.
Selima, la moglie del suo
vicino Mehboub, incinta di sette
mesi, era
Tre giorni prima, alla
fontana, senza dare nell'occhio, una delle
vicine aveva abbordato la giovane musulmana. Mumtaz Bibi, una matrona
con il viso butterato dal vaiolo, era un personaggio un po' misterioso
in un universo che la promiscuità rendeva
trasparente. Benché il
marito fosse un semplice
operaio, lei viveva con una certa
opulenza.
Abitava nella sola casa di mattoni della viuzza e il suo alloggio non
era proprio un
tugurio. Dal soffitto pendeva un
ornamento rarissimo:
una lampadina elettrica. Si
diceva che molte camere dei
cortili dei
dintorni fossero di sua
proprietà, ma nessuno sapeva da dove le
venisse il denaro. Le male
lingue assicuravano che Mumtaz
esercitava
delle attività occulte fuori dal quartiere. Si era visto il padrino
della mafia locale entrare da
lei. Si parlava di un traffico di
"bhang",
l'erba indiana, di distillazione clandestina di
alcol, di
prostituzione e perfino di un traffico di bambine per le case chiuse
di Delhi e
di Bombay. Ma nessuno aveva mai potuto fondare quelle
maldicenze sull'ombra di una prova.
«Fermati da me quando torni dalla fontana» aveva detto a Selima, «ho
una proposta interessante da farti.»
Per quanto sorpresa, Selima
ubbidì. Da quando suo marito aveva
perso
il posto, la povera donna
non era più che un'ombra. Il suo
bel viso
regolare si era appassito e il brillantino della sua narice era finito
da un pezzo nella cassaforte dell'usuraio. Lei, sempre
così eretta e
dignitosa nel suo vecchio sari, ora camminava ricurva
come una
vecchia. Solo il suo ventre
rimaneva intatto, un ventre gonfio, teso,
stupendo, che portava con
orgoglio. Era la sua unica
ricchezza. Fra
due mesi avrebbe messo al mondo l'esserino che
le si muoveva dentro.
Il suo quarto bambino.
Mumtaz Bibi aveva preparato un piatto di dolci e due coppette di tè al
latte. Fece sedere l'ospite sul tavolaccio che le serviva da letto.
«Vuoi proprio tenerlo questo bambino?» chiese a bruciapelo puntando un
dito verso il ventre di Selima. «Se tu fossi d'accordo per vendermelo,
potrei proporti un buon affare.»
«Venderle il mio bambino?» balbettò Selima stupefatta.
«Non esattamente il tuo
bambino» corresse vivacemente la matrona,
«solo quello che hai nel ventre in questo momento. E per una bella
sommetta, mia cara: duemila rupie.»
L'opulenta dama di Fakir Bhagan Lane esercitava l'ultima, in ordine di
tempo, delle professioni
clandestine di Calcutta, che
consisteva nel
procacciare embrioni e feti umani. All'origine di tale commercio c'era
una rete di acquirenti stranieri che
percorrevano il terzo mondo per
conto di laboratori internazionali e di istituti di ricerca genetica.
Erano quasi tutti svizzeri o americani e si servivano degli embrioni e
dei feti per i loro lavori scientifici, oppure per la fabbricazione di
prodotti di ringiovanimento destinati alla ricca clientela di istituti
specializzati d'Europa e d'America. La domanda aveva dato origine a un
fruttuoso traffico, di cui
Calcutta era uno dei poli. Uno dei
fornitori abituali di quella strana mercanzia
era un certo Sushil
Vohra, il quale si riforniva
presso molte cliniche che praticavano
l'aborto,
assicurando il condizionamento delle spedizioni
che
partivano per l'Europa o gli Stati Uniti via
Mosca, con i voli
regolari della compagnia Aeroflot.
I feti più ricercati erano naturalmente i più sviluppati, quindi i più
maturi. Ma erano anche i più difficili da ottenere, il che spiegava la
forte somma proposta a Selima,
mentre un embrione di due mesi si
pagava meno di duecento
rupie. Era infatti eccezionale che
una donna
giunta al sesto o settimo mese di gravidanza acconsentisse a disfarsi
del proprio bambino. Anche
nelle famiglie più povere, la
nascita dei
figli è sempre attesa con gioia.
Essi costituiscono la sola ricchezza
di chi non ha niente.
Mumtaz Bibi assunse un tono materno.
«Rifletti bene, bambina. Hai già tre figli. Tuo marito è disoccupato e
ho sentito dire che in casa tua non si mangia
tutti i giorni. Forse
non è il momento di
aggiungere un'altra bocca alla tua famiglia.
Mentre con duemila rupie, sai, si possono riempire molti piatti di
riso.»
Lo sapeva, la povera
Selima. Trovare qualche buccia e
qualche scarto
da mettere sotto i denti dei suoi era una tortura quotidiana.
«Che dirà mio marito se torno a casa con duemila rupie e più niente
nel...» si preoccupò la sventurata.
La donna ebbe un sorriso complice.
«Andiamo, testa d'asino, le duemila rupie, non te le darò in una sola
volta. Le avrai a poco a poco. Tuo marito non noterà nulla e tu potrai
comprare ogni giorno quel che serve per far mangiare la tua famiglia.»
Le due donne si erano separate su queste parole. Ma Mumtaz Bibi aveva
richiamato Selima.
«Ah, dimenticavo una
cosa. Non devi aver paura per la tua salute.
L'operazione viene fatta nelle
migliori condizioni e non
dura che
pochi minuti. Al massimo, mancherai da casa per tre ore.»
L'idea del rischio non aveva neanche sfiorato la moglie di Mehboub:
per un povero dello "slum", la morte non è una preoccupazione.
Per tutta la giornata e la notte seguente, l'infelice fu ossessionata
da quella proposta. Ogni
fremito che sentiva nel ventre
le sembrava
una protesta contro
l'orribile mercato che le era stato offerto. Mai
avrebbe potuto acconsentire a quell'assassinio, neanche per duemila
rupie. Ma quella notte altre voci dovevano
torturare Selima. Quelle
dei tre bambini che piangevano
di fame. All'alba prese la sua
decisione: avrebbe fatto tacere quei pianti.
Tutto fu organizzato per due giorni dopo.
Appena ricevette il
messaggio della matrona, il
trafficante Sushil Vohra preparò un
gran
barattolo di vetro con un liquido antisettico. Un embrione di sette
mesi aveva quasi la taglia di un neonato. Portò il recipiente alla
clinica dove si doveva svolgere
l'intervento. La festa delle luci
poneva qualche problema,
perché i chirurghi indù abituali se n'erano
andati tutti a giocare a carte o a dadi. Ma Sushil Vohra non era uomo
da lasciarsi fermare da ostacoli del genere. Fece venire uno dei loro
colleghi musulmani.
Il centro medico dove
Mumtaz Bibi fece entrare Selima poteva
difficilmente aspirare all'appellativo di "clinica". Era una specie
d'infermeria con una sola stanza divisa in due da una tenda. La prima
metà serviva per l'accettazione
e le cure, la seconda per le
operazioni.
L'attrezzatura
chirurgica era delle più sommarie:
un
tavolo metallico, un tubo di neon al soffitto, un flacone d'alcol, un
altro di etere su uno scaffale. Non c'erano né autoclave, né ossigeno,
né scorte di sangue. E neanche gli strumenti. Ogni chirurgo portava la
sua borsa personale.
Nauseata dall'odore di etere che impregnava il locale, Selima si
lasciò cadere sullo sgabello che
costituiva l'unico arredamento.
L'atto che si accingeva a compiere le sembrava
sempre più mostruoso,
ma la sua rassegnazione era
totale. Tra la camicetta
e la pelle
sentiva le prime banconote che le aveva consegnato Mumtaz Bibi: trenta
rupie, di che comprare
tredici chili di riso. "Stasera mio marito e i
miei figli potranno mangiare" pensò.
Il chirurgo convocato per la circostanza era un uomo di una
cinquantina d'anni, con la
fronte stempiata e grandi orecchie pelose.
Fece sdraiare Selima sul tavolo e la visitò attentamente.
Dietro di
lui il trafficante si spazientiva. L'aereo della compagnia Aeroflot
decollava quattro ore dopo. Avrebbe appena fatto in tempo a portare il
barattolo
all'aeroporto di Dum Dum.
Aveva avvertito il suo
corrispondente a New
York. La transazione gli avrebbe
fruttato circa
mille dollari.
«Che cosa aspetta, dottore?»
Il chirurgo tirò fuori l'astuccio degli strumenti, s'infilò un camice,
chiese il sapone e una catinella per lavarsi le mani, imbevve d'etere
un grosso tampone di cotone che mise sul naso e sulla bocca di Selima.
Si fregò nervosamente i baffi in attesa che la giovane donna avesse
perso conoscenza e afferrò il bisturi. Venti minuti
dopo, applicava
delle compresse di garza per assorbire il sangue dell'incisione e
intanto afferrava il feto per i piedi e lo deponeva con la placenta
tra le mani del trafficante. Era un maschio.
Il dramma accadde quando ebbe
tagliato il cordone ombelicale.
Dal
ventre di Selima uscì una schiuma
rossastra, poi dei grossi grumi
neri, e di colpo un vero e proprio torrente. In pochi secondi il
cemento della stanza fu inondato
di sangue. Il chirurgo
tentò di
comprimere il basso ventre con delle garze e una fasciatura molto
stretta. Ma il fiotto rosso era inarrestabile. Disfece la fasciatura e
cercò a tentoni il
tracciato dell'aorta addominale. Applicando il
pugno sul vaso sanguigno, si appoggiò con tutto il suo peso per tentar
di arrestare l'emorragia.
Ma senza l'ausilio di una massiccia dose di
coagulanti, ogni sforzo era vano. Cercò il polso di Selima. I battiti
erano ormai impercettibili e irregolari. Al rumore di una porta che
sbatteva alle sue spalle,
il chirurgo si voltò. Il trafficante se
n'era andato portandosi via il suo recipiente.
Mumtaz Bibi, la
procacciatrice, fece
altrettanto dopo aver velocemente ricuperato le
sue trenta rupie nella camicetta della vittima. Il chirurgo coprì con
il sari il corpo della giovane musulmana che agonizzava. Poi si tolse
il camice macchiato di sangue e
lo piegò con cura. Rimise gli
strumenti nell'astuccio e chiuse il tutto nella valigetta di skai. Poi
se ne andò anche lui.
Selima rimase sola con l'inserviente della "clinica". Si
sentivano dei
rumori di voci che venivano da fuori e il cigolio del ventilatore. Il
tampone di cotone imbevuto di
etere seguitava a nascondere il viso
della poveretta. L'inserviente
era un ometto mingherlino con folte
sopracciglia e un naso ricurvo come un becco d'aquila. Per lui, quel
corpo esangue sulla tavola valeva tutte le partite a carte della festa
di Diwali. Conosceva un
posto dove facevano a pezzi i cadaveri
senza
identità per ricuperarne gli scheletri e esportarli in America."
Non so se la mia reazione di stupore e amarezza è stata condivisa; ora proverei ad aprire un giornale online, ad andare su un social network, a guardare un telegiornale, osservando quali tipologie di contenuti trovano più spazio e rilievo in essi. Ecco, facciamoci un bell'esame di coscienza.
Non so se la mia reazione di stupore e amarezza è stata condivisa; ora proverei ad aprire un giornale online, ad andare su un social network, a guardare un telegiornale, osservando quali tipologie di contenuti trovano più spazio e rilievo in essi. Ecco, facciamoci un bell'esame di coscienza.
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